Se deciderete di visitare il parco naturale del Serengeti (Tanzania), con molta probabilità atterrerete all’aeroporto di Kilimangiaro da dove vi dirigerete verso la città di Arusha lungo una strada perlopiù battuta, ma che i cinesi stanno asfaltando a ritmi incalzanti, perciò è molto probabile che tra non molto la polverosissima via di cui vi parlo sarà solo un lontano ricordo e, come tale, verrà romanticamente romanzata dagli abitanti dei villaggi che sorgono lì intorno. Bene, una volta giunti ad Arusha comincerà il vostro viaggio vero e proprio che, se sarà simile al mio, vi porterà alla scoperta dei parchi naturali della Tanzania
, con il Taman Negara, dove i leoni sonnecchiano sugli alberi, il cratere di Ngorongoro e, infine, il leggendario Serengeti che vi offrirà l’opportunità, forse unica, di accamparvi in tenda senza alcuna rete di protezione tra voi e gli elefanti, le giraffe, i leoni, gli ippopotami, le iene e tutti gli altri animali che popolano la zona, ma niente paura, perché i Tanzani giurano che gli animali più pericolosi si tengano alla larga dall’accampamento, perché infastiditi dall’uomo. Tuttavia, pur avendolo chiesto più volte, ancora non ho compreso perché, invece, quelli meno pericolosi non abbiano alcun timore e si aggirino tra le tende in cerca di cibo, come le lemuri, le scimmie, i topi ed altri animali tozzi e strani simili a castori paffuti. Ma anche questo fa parte dei grandi misteri custoditi gelosamente da mamma Africa, sui quali è meglio non indagare troppo.
Lungo la strada che collega questi parchi vi capiterà senz’altro di incrociare i Masai Boma: tipici villaggi dove ancora oggi vivono i Masai, che rappresentano solo una tra le diverse tribù presenti in Tanzania, ma senz’altro la più affascinante. Quando la Jeep che mi stava portando verso il Serengeti si è accostata al villaggio, da ogni dove sono sbucati bambini sorridenti, alcuni in realtà armati di machete (sigh), che hanno accerchiato la macchina incuriositi e così mi è venuto in mente di avere con me diversi pacchetti di cracker che tanto non avrei potuto portare in tenda nel Serengeti…non stavo scherzando prima sugli animaletti che non aspettano altro di poter banchettare nelle tende! Allora glieli ho dati, tra l’ilarità generale e qualche zuffa per accaparrarseli. Chissà se poi avranno realmente apprezzato i miei cracker dietetici al riso e mais, ma la scena è stata davvero divertente.
Dopo questo primo approccio con i Masai ne sono susseguiti diversi. Il primo poco dopo, dove dei ragazzini vestiti di nero e dipinti con strani disegni geometrici sulla faccia stavano cercando di barattare un uovo di struzzo con qualcosa da mangiare a bordo strada.
Ho scoperto così che a partire dall’età di 12 anni i giovani Masai diventano adulti, devono superare diversi riti di iniziazione e, in ultimo, vengono allontanati dal villaggio dove per mesi devono indossare vesti nere, portare disegni bianchi sul volto e sopravvivere senza alcun contatto con il resto della tribù. In passato i giovani in procinto di diventare adulti avrebbero dovuto uccidere anche un leone, ma questa pratica è attualmente vietata dal governo Tanzano e perciò i ragazzi più che altro bighellonano per mesi in mezzo al nulla, fermando le auto che passano, un po’ per noia, un po’ per necessità. Purtroppo avevo già dato tutta la mia riserva di cracker ai bambini del villaggio e quindi i ragazzi Masai si sono accontentati di esplorarmi per bene i capelli, stupendosi del loro colore rosso vivo.
Quattro giorni dopo, di ritorno da Ngorongoro, sono finalmente entrata in un Masai Boma. La visita funziona in questo modo: la Jeep dei turisti si avvicina al villaggio e attende che il capo tribù decida se è il caso che entrino. Una volta ottenuta l’autorizzazione – e dopo aver pagato il prezzo prestabilito – tutti gli abitanti del villaggio accorrono a salutare i turisti con una danza tradizionale che consiste nel fatto che i maschi saltino più alto che possono, come se avessero letteralmente delle molle al posto dei piedi, e le donne facciano ondeggiare l’enorme collana caratteristica del vestiario femminile Masai. Anche i turisti vengono abbigliati con le loro stoffe che a dire il vero non hanno un ottimo odore, ma che bellezza poterle indossare! Gli uomini provvedono poi a mostrare come si accende un fuoco senza alcun ausilio, mentre le donne mostrano come sono fatte le loro minuscole e cilindriche case, fatte di rami…e sterco!
La visita prosegue verso la scuola, dove bambini di diverse età fanno lezione tutti insieme in una capanna decisamente spartana e infine viene mostrata la dotazione di mucche del villaggio. Già, perché per i Masai le mucche sono una vera e propria ricchezza: innanzitutto perché l’alimentazione di questa tribù consiste nel mangiare carne, latte e sangue, nient’altro…e chissà, quindi, se i miei cracker avranno fatto bene ai bambini del primo villaggio incontrato…lo spero tanto! Inoltre la dote per poter prendere moglie è costituita anch’essa da mucche, donate al padre della sposa. Ecco perché gli uomini Masai si sposano molto tardi, intorno ai 30 anni, dopo che sono riusciti a guadagnare abbastanza mucche, mentre le donne si tolgono il pensiero molto prima. È stato allora che il pastore Masai mi ha chiesto quante mucche avesse la mia famiglia e quando gli ho risposto di non possederne, ma di avere solo cani e gatti, mi ha guardato con aria intenerita. Anche questo episodio è stato piuttosto divertente, già, perché i Masai sono proprio un popolocordiale e sorridente, capace di vivere di nulla e nel nulla.
Quello che mi ha stupito al Masai Boma è stato osservare come quasi tutti portassero un orologio al polso, oggetto ormai quasi desueto in occidente. Ovviamente, inutile dirlo, serve loro per sapere che ore siano, ma quello che è interessante è che non abbiano altra possibilità di sapere l’ora, perché nei villaggi non c’è elettricità, dunque niente cellulari, radio o televisioni, ma solo le loro cilindriche case di sterco dove dormono e cucinano.
I Masai che vivono nelle città come Arusha, invece, non portano l’orologio: usano il cellulare, ma non abbandonano mai le loro caratteristiche vesti, come anche quelli che sono emigrati sull’isola di Zanzibar, dove spesso lavorano come uomini della sicurezza negli alberghi. Un giorno, mentre passeggiavo sulla bianchissima spiaggia di Paje, ne ho visti due che si divertivano a saltare sulla sabbia, così mi sono avvicinata e ho chiesto loro perché stessero saltando. <<Siamo Masai>> mi hanno risposto. Scema io ad averglielo chiesto!
Quelli di Zanzibar sono stati gli ultimi Masai che ho incontrato e, come ogni volta che mi capita di conoscere popolazioni ancora così autentiche, sono stata arricchita nel profondo da loro. Come quella volta che in Messico ho imparato davvero molto sui Maya e ve ne avevo scritto qui.
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